I crediti al sicuro dalla revocatoria fallimentare

 In altro approfondimento ci siamo occupati dell’azione revocatoria fallimentare, disciplinata dall’art. 67 della legge fallimentare, che  prevede la revocabilità degli atti a titolo oneroso, dei pegni e delle ipoteche, in sostanza di tutti i pagamenti effettuati a terzi dall’impresa prima del fallimento.

L’AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE

Si tratta di un’azione giudiziaria che il curatore fallimentare, nominato dal Tribunale a seguito della dichiarazione di fallimento dell’impresa, può esercitare, al fine di far rientrare nella massa patrimoniale dell’impresa le somme corrisposte, a titolo di pagamenti, nel periodo antecedente al fallimento.

La norma prevede un doppio termine entro il quale il curatore può esercitare l’azione, a seconda che si tratti di pagamenti “anomali”, rispetto al prezzo o rispetto alla modalità di estinzione del debito, per i quali il termine è di un anno dalla dichiarazione di fallimento, o che si tratti di pagamenti normali o abituali, per i quali il termine è di sei mesi.

Per questi ultimi, inoltre, è previsto che, in corso di causa, il curatore debba provare che, al momento di ricevere il pagamento, il creditore dell’impresa fosse a conoscenza dello stato d’insolvenza dell’impresa; in mancanza di tale dimostrazione, la domanda di restituzione verrà rigettata.

CASI DI ESCLUSIONE: ART. 67 COMMA III

L’art. 67 della legge fallimentare, inoltre, prevede alcuni casi di esclusione dalla revocatoria, di cui molti introdotti da recenti riforme, tra cui il d.l. 22 giugno 2012 n. 83, convertito nella legge 7 agosto 2012 n. 134, casi su cui oggi ci soffermiamo.

Al comma 3 la norma richiamata prevede che non sono soggetti all'azione revocatoria:

a)  i pagamenti di beni e servizi effettuati nell'esercizio dell'attività d'impresa nei termini d'uso;

b)  le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca;

c)  le vendite ed i preliminari di vendita trascritti ai sensi dell’articolo 2645-bis del codice civile, i cui effetti non siano cessati ai sensi del comma terzo della suddetta disposizione, conclusi a giusto prezzo ed aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, ovvero immobili ad uso non abitativo destinati a costituire la sede principale dell'attività d'impresa dell'acquirente, purché alla data di dichiarazione di fallimento tale attività sia effettivamente esercitata ovvero siano stati compiuti investimenti per darvi inizio;

d) gli atti, i pagamenti e le gaanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria;

e)  gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata, nonché dell'accordo omologato ai sensi dell'articolo 182-bis, nonché gli atti, i pagamenti e le garanzie legalmente posti in essere dopo il deposito del ricorso di cui all'articolo 161;

f) i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti ed altri collaboratori, anche non subordinati, del fallito;

g) i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi strumentali all'accesso alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di concordato preventivo.

La ragione dell’esclusione è nel fatto che i pagamenti elencati al terzo comma dell’art. 67 l.f. devono ritenersi fatti in esecuzione di un obbligo previsto dalla legge e, in ogni caso, non possono essere ritenuti lesivi delle ragioni dei creditori.

I PAGAMENTI FATTI NEI “TERMINI D’USO”

A questo proposito la Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 25162 del 07/12/2016, si è espressa per la prima volta in ordine all'interpretazione del comma terzo lett. a) dell’art. 67 della l.f., soffermandosi, in particolare, sul significato da attribuire alla dizione "termini d'uso" in tema di particolari motivi di esenzione dall'azione revocatoria.

A tal proposito la Suprema Corte afferma che il riferimento della norma attiene alle modalità di pagamento proprie del rapporto tra le parti e non già alla prassi del settore economico in questione; pertanto, per valutare la normalità del pagamento effettuato in base ai “termini d’uso” si deve avere riguardo alle modalità di pagamento intercorse nell'abitudine commerciale invalsa fra le parti della transazione di cui si chiede la revoca.

pubblicato il 25/12/2016

A cura di: Daniela D'Agostino

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