La responsabilità del professionista

Accade non di rado che chi si rivolge ad un professionista – avvocato, notaio, commercialista, architetto, medico – subisca un danno derivante da errori, più o meno gravi, di chi ha svolto l’attività richiesta.

Per ottenere il risarcimento del danno occorre agire in giudizio, dinanzi al Tribunale competente per territorio, a meno che non si riesca ad ottenere un ristoro in via stragiudiziale da parte della compagnia assicurativa che manleva il professionista.

Va detto, infatti, che è divenuta da tempo obbligatoria l’assicurazione per la responsabilità civile delle varie categorie professionali, a tutela del danneggiato.

LIMITI DI RESPONSABILITA’

Vediamo allora quali sono i limiti di responsabilità che la legge pone all’attività professionale.
L’art. 1176 del codice civile, al secondo comma, dispone che nell’adempimento delle obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività professionale la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata.

Ciò significa che la diligenza richiesta al professionista è una diligenza qualificata, superiore a quella che viene richiesta ad una persona comune (c.d. diligenza del buon padre di famiglia), ed è commisurata alla prestazione che lo stesso deve eseguire.

Il professionista, infatti, risponde, oltre che per dolo e colpa grave, anche per negligenza, imprudenza e colpa lieve, attesa la specifica preparazione e conoscenza della materia che egli deve avere.

CASI DI PARTICOLARE DIFFICOLTA’ TECNICA

La legge, tuttavia, prevede un caso di attenuazione di responsabilità del professionista, disciplinato all’art. 2236 c.c., in base al quale se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o di colpa grave; ciò significa che deve trattarsi di casi in cui l'impegno intellettuale richiesto è superiore a quello professionale medio, con conseguente presupposizione di preparazione e dispendio di attività anch'esse superiori alla media, come ha precisato la Corte di Cassazione con sentenza n. 5928/2002.

Se, pertanto, la materia trattata dal professionista, o l’attività da lui svolta, presenta un grado di difficoltà elevato - ad esempio perché relativa ad un ambito nuovo e poco sperimentato, o perché materia oggetto di contrasti ed orientamenti diversi tra gli esperti – egli non risponde dei danni cagionati, a meno che non sia incorso in dolo o grave imperizia.

In quest’ultima ipotesi l’onere di provare che si sia trattato di un caso di particolare difficoltà grava sul professionista, mentre al danneggiato spetta dimostrare, sempre, il nesso di causalità tra il danno subito e la condotta posta in essere dal professionista.

CONDOTTA OMISSIVA

Una fattispecie particolare è quella della responsabilità per condotta omissiva, che si verifica quando il professionista, tenuto a compiere una determinata attività nell’interesse del suo assistito, omette invece di svolgerla, cagionando in tal modo un danno al cliente.

Anche in questa ipotesi il danneggiato, per ottenere il risarcimento, è tenuto a dimostrare che il danno sia dipeso dalla condotta del professionista; tuttavia, poiché si è in presenza di un’omissione, la prova che se fosse stata svolta l’attività il danno non si sarebbe verificato non può basarsi su dati o prove caratterizzati dalla certezza.

Ad esempio, consideriamo il caso di un avvocato che ometta di riassumere un giudizio per conto del proprio cliente, facendo scadere i termini di legge, quindi lo privi, di fatto, della possibilità di difendersi; il cliente dovrà dimostrare che, se l’avvocato avesse riassunto il giudizio, egli avrebbe avuto non solo la possibilità di tutelare i propri diritti ma anche che la sua domanda sarebbe stata accolta dal giudice, dunque che avrebbe vinto la causa.

LA CASSAZIONE

E’ questo il caso considerato dalla Cassazione, in una recente pronuncia, la n. 25112 del 24.10.2017, nella quale si afferma il principio secondo cui “in tema di responsabilità per colpa professionale determinata dal non aver compiuto o adempiuto ad un’attività che avrebbe arrecato vantaggio al cliente, la regola del “più probabile che non” si applica tanto all’accertamento del nesso causale tra l’omissione e l’evento danno, quanto all’accertamento del nesso tra il danno e le conseguenze dannose risarcibili”.

Con detta massima la Suprema Corte ha ribadito anzitutto la regola in base alla quale la prova del nesso causale in caso di condotta omissiva è fondata su elementi ipotetici, su “ciò che comunemente accade” in casi simili o sul principio del “più probabile che non”; allo stesso modo, aggiunge la Corte, il danneggiato potrà fornire la prova del danno subito facendo riferimento alle stesse regole, cioè dimostrando che, se il professionista avesse posto in essere l’atto omesso, in base a ciò che comunemente si può desumere da circostanze simili, sarebbe stato più probabile che il cliente conseguisse un vantaggio piuttosto che un danno.

pubblicato il 14/12/2017

A cura di: Daniela D'Agostino

Come valuti questa notizia?
Valutazione: 0/5
(basata su 0 voti)