Dimissioni annullabili per incapacità d’intendere e volere

Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata, per qualsiasi causa anche transitoria, incapace d'intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all'autore.

CAUSA DI ANNULLAMENTO

E’ quanto dispone l’art. 428 del codice civile, norma che può essere applicata in tutti i casi di contratti o atti unilaterali posti in essere da persona incapace d’intendere e volere, anche solo temporaneamente; la ragione di tale previsione sta nel fatto che la legge considera valida i negozi giuridici pienamente consapevoli ed effettivamente voluti da chi li ha eseguiti.

Analogamente costituiscono causa di annullamento del contratto i cosiddetti “vizi del consenso”, cioè quelle circostanza, come il dolo, la violenza e l’errore, in grado di inficiare la volontà del contraente e di indurlo a compiere un atto negoziale che altrimenti egli avrebbe evitato.

L’annullabilità per incapacità d’intendere e di volere, come detto, può riguardare non solo i contratti ma anche gli atti unilaterali; tra questi rientrano le dimissioni rassegnate dal lavoratore, il quale, se ha agito in stato d’incapacità anche solo transitoria, può chiederne l’annullamento, entro il termine di prescrizione di cinque anni dalla data dell’atto.

LE DIMISSIONI DEL LAVORATORE

E’ quanto ha affermato di recente la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30126/2018, in cui è stato esaminato il caso di un lavoratore di una pubblica amministrazione che, affetto da stress e patologie psichiche causate dall’attività svolta, aveva rassegnato le dimissioni.

In primo grado la sua domanda era stata accolta ma, su ricorso del datore di lavoro, la Corte d’Appello aveva dato ragione a quest’ultimo, pur riconoscendo l’infermità del lavoratore al momento delle dimissioni.

Il lavoratore aveva quindi impugnato la sentenza in Cassazione, chiedendo di riconoscere il suo diritto a revocare le dimissioni e ad essere riammesso al lavoro.

La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, afferma il principio secondo cui “ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'importanza dell'atto che sta per compiere”.

TUTELA COSTITUZIONALE

Applicando tale principio all’ipotesi delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, sempre secondo i giudici di legittimità, l’accertamento delle condizioni d’incapacità deve essere molto rigoroso “ in quanto le dimissioni comportano la rinunzia del posto di lavoro - bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cast. - sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l'incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto stesso”.

Ricordiamo, a tale proposito, che la Costituzione tutela il diritto-dovere al lavoro, agli articoli citati dalla Corte di Cassazione, riconoscendo anche il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, in ogni caso adeguata ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

pubblicato il 13/02/2019

A cura di: Daniela D'Agostino

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