Diritto di cronaca e danno all’immagine

Il diritto di cronaca, inteso come diritto ad informare il pubblico, attraverso i media, di fatti che accadono nella realtà, è espressione del più ampio diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero, riconosciuto all’art. 21 della Costituzione.

Limiti al diritto d’informazione

Esso trova, tuttavia, un limite nel rispetto di altrettanti diritti riconosciuti costituzionalmente, tra cui il diritto alla dignità personale ed alla reputazione, la cui violazione, attraverso l’esercizio illegittimo del diritto di cronaca e di informazione in generale, integra il reato di diffamazione, sanzionato penalmente.
Anche la diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose è sanzionata penalmente, all’art. 656 c.p., così come la diffusione di notizie coperte da segreto istruttorio o di informazioni coperte da segreto di Stato.
In generale, ogni operatore dell’informazione deve attenersi ai doveri di correttezza e buona fede, alla base di ogni rapporto giuridico, maggiormente laddove si eserciti una professione, come nel caso dei giornalisti.

Risarcimento del danno

La violazione dei limiti imposti al diritto d’informazione può comportare, per il responsabile dell’articolo diffamatorio, l’obbligo civile di risarcire i danni alla parte lesa, la quale può chiedere in giudizio il ristoro del danno non patrimoniale arrecato alla propria immagine, purché ne fornisca la prova.
Sul punto si è espressa la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 4005 del 18 febbraio 2020, relativamente ad un caso di presunta diffamazione a mezzo stampa, nel quale il soggetto menzionato nell’articolo chiedeva il risarcimento del danno all’immagine.

Prova del danno all’immagine

Secondo la Suprema Corte, il danno all'immagine ed alla reputazione, inteso come "danno conseguenza", non sussiste "in re ipsa", dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento, sicché la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice, in base non tanto a valutazioni astratte, bensì al concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e provato.
La sussistenza di un danno non patrimoniale in concreto subìto, dunque, deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della vittima.
A tal fine il giudice può avvalersi di presunzioni gravi, precise e concordanti sulla base, però, di elementi indiziari diversi dal fatto in sé.

Accertamento del giudice

Pertanto, costituisce un accertamento in fatto, non sindacabile in sede di legittimità, stabilire se una espressione, uno scritto, un documento, siano effettivamente lesivi dell'onore e della reputazione altrui, una volta applicati correttamente i suddetti parametri di valutazione.
Nel caso concreto sottoposto all’esame della Corte di Cassazione, la decisione impugnata, nel valutare il danno, dimostra di avere preso in considerazione la posizione personale e sociale del soggetto leso, in riferimento sia al profilo oggettivo della violazione commesso, in relazione alla gravità dell'accusa infondatamente mossa, che a quello soggettivo, relativo alla personalità del soggetto offeso e all'incidenza che la notizia falsa aveva presumibilmente avuto in riferimento al contesto sociale e professionale cui si riferiva.
Sulla base di tali motivazioni la Cassazione, pertanto, ha rigettato il ricorso proposto dal soggetto che si riteneva leso dalla stampa, non avendo egli allegato alcun elemento, nemmeno indiziario, che consentisse al giudice di ritenere provato il danno all’immagine.

pubblicato il 10/04/2020

A cura di: Daniela D'Agostino

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