La dichiarazione giudiziale di paternità

Con l’azione giudiziale di riconoscimento della paternità e della maternità, il figlio non riconosciuto può ottenere dal Tribunale una sentenza che gli riconosca lo status di figlio, quindi, di godere dei medesimi diritti del figlio legittimo.

Tale azione, denominata "azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale" e disciplinata all’art. 269 del codice civile, può essere esercitata dal figlio maggiorenne o, nel caso di minore età, dal genitore o dal tutore che agisce nel suo interesse; può, inoltre, essere esercitata o proseguita dagli eredi del figlio naturale, così come – in caso di morte del genitore nei cui confronti si chiede il riconoscimento – può essere esercitata nei confronti degli eredi di quest’ultimo.

MEZZI DI PROVA

Quanto ai mezzi per dimostrare la paternità o la maternità del soggetto citato in giudizio la legge non pone preclusioni; in particolare, la maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre.

Per quanto riguarda la paternità,  la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all'epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità.

Occorrono, pertanto, prove ulteriori, che possono consistere in testimonianze che confermino il legame sentimentale tra i genitori del figlio che chiede il riconoscimento; anche tali prove, tuttavia, da sole, sono insufficienti.

TEST DEL DNA E RIFIUTO DELL’ESAME

Il mezzo di prova che senz’altro consente di ritenere accertato lo status di figlio nei confronti del presunto padre o della presunta madre è il test del DNA che, attraverso il prelievo di sangue dal genitore convenuto nel giudizio di riconoscimento, è in grado di confermare o meno la parentela.

E’ frequente, tuttavia, che il genitore – i casi di dichiarazione giudiziale riguardano soprattutto il padre – si rifiuti di sottoporsi agli esami ematologici richiesti; per questa ragione, al fine di tutelare il diritto del figlio al riconoscimento, detto rifiuto viene inteso dal giudice, unitamente ad altri elementi di prova, quale implicita ammissione di paternità.

Tale principio è stato affermato e ribadito più volte dalla Corte di Cassazione (fra tutte la sentenza n. 6025 del 25 marzo 2015) secondo cui, nel giudizio promosso per l'accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, secondo comma, c.p.c., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda.

INTERESSE DEL MINORE ALLA DICHIARAZIONE 

Qualora ad esercitare l’azione sia il genitore (più frequentemente la madre) del figlio minore si pone spesso il problema di valutare se la dichiarazione giudiziale di paternità sia effettivamente nell’interesse del figlio di cui si chiede di accertare la paternità.

A questo proposito la Suprema Corte, con la recente ordinanza  n.16356/2018, ha affermato che la contrarietà all'interesse del minore può sussistere solo in caso di concreto accertamento di una condotta del preteso padre tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale, ovvero di prova dell'esistenza di gravi rischi per l'equilibrio affettivo e psicologico del minore e per la sua collocazione sociale.

Tali rischi, inoltre, devono risultare da fatti obbiettivi, emergenti dalla pregressa condotta di vita del preteso padre, ed in mancanza di essi l'interesse del minore va ritenuto di regola sussistente, a prescindere dai rapporti di affetto che possano in concreto instaurarsi con il presunto genitore e dalla disponibilità di questo ad instaurarli, avendo riguardo al miglioramento obiettivo della sua situazione in relazione agli obblighi giuridici che ne derivano per il preteso padre.

pubblicato il 25/10/2018

A cura di: Daniela D'Agostino

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